Attivo fin dal 2005, il gruppo di ricerca Ippolita si è presto affermato come una delle voci più autorevoli nel panorama italiano della teoria critica della rete. A due anni di distanza dal loro ultimo lavoro (Nell’acquario di Facebook, opera in cui veniva decostruito il progetto anarco-capitalista che anima il social network in blu), il collettivo di filosofia radicale torna in questi giorni nelle librerie con il volume La rete è libera e democratica. Falso!. Li abbiamo intervistati.
Glenn Greenwald, il giornalista che ha portato alla luce le rivelazioni di Edward Snowden, in una recente intervista al Manifesto ha sostenuto che «le forme di controllo servono a sorvegliare (e punire, proprio come sostiene Michel Foucault) gli elementi “cattivi” della società, all’interno di una divisione tra buoni e cattivi che crea la legittimazione alle forme di controllo». Ippolita però, più che sulla nozione di “società del controllo”, insiste su quella di “società della prestazione”. Quale differenza passa tra i due concetti?
Siamo abituati a pensare che il tema del controllo sociale sia di esclusivo appannaggio politico, mentre ora è diventato anche una prerogativa commerciale. La capacità di stoccaggio dati di una società come Google infatti è senza dubbio superiore rispetto a quella di qualsiasi stato. E questo per il semplice fatto che Big G ha sviluppato ormai da anni un know how specifico in quest’ambito.
E Google non divide in buoni o cattivi: ci siamo semplicemente tutti. La differenza con la Società Disciplinare sta nella scomparsa della dialettica della negatività. Un dispositivo come Facebook per esempio viene elaborato per includere e normalizzare qualsiasi bio-diversità, conflitto politico compreso. I social ovviamente non sono Internet, ma è li che si incardina l’esperienza di massa, è in quel recinto che gli individui sperimentano la presa di parola pubblica: in uno spazio creato a fini commerciali e di controllo.
Si tratta di luoghi dove non esiste un “fuori”, ma solo un grande interno interconnesso in cui le contrapposizioni del soggetto d’obbedienza (amico/nemico, normale/deviante) vengono superate da una nuova prassi: la positività del “poter fare” illimitato. Emerge così quello che il filosofo Byung Chul-Han ha definito, in modo molto simile a noi, il soggetto di prestazione, iper-responsabilizzato all’iniziativa e la cui tensione emotiva è assorbita in uno sforzo di auto-realizzazione che risponde completamente al progetto anarco-capitalista della Trasparenza Radicale.
Settimana scorsa Google ha aperto sul diritto all’oblio in Europa. Pochi giorni prima Facebook ha annunciato l’intenzione di voler investire di più nella tutela della privacy degli utenti. In un editoriale su Repubblica Rodotà si è chiesto se questi avvenimenti non alludano a un processo di costituzionalizzazione di Internet. Il «Far West del Web 2.0», come l’avete definito nel libro, è giunto al capolinea?
È molto ingenuo pensare di limitare l’azione di governo bio-politico che le grandi major sovranazionali esercitano sulle masse globalizzate. Ci pare che questi aggiustamenti siano solo operazioni di facciata: chi si vuole davvero tutelare deve farlo da sé, acquisendo e trasmettendo conoscenza.
Il Web 2.0 ha cominciato da poco a sperimentare. È stato appena scoperto il modo di mettere a valore la capacità umana di produrre senso – il desiderio umano di comunicare è una risorsa illimitata – e il capitalismo digitale non solo è agli esordi, ma è anche completamente legittimato dalla retorica della democrazia elettronica. Perché mai dovrebbe fermarsi? Se pure il diritto all’oblio dovesse avere corso reale.. beh, è poca concessione rispetto a ciò che i nuovi padroni dell’IT espropriano agli utenti.
Ci pare piuttosto che all’orizzonte cominci a delinearsi una divisione in classi economiche-sociali, non soltanto relativamente alla net neutrality, ma anche rispetto all’accesso ai servizi: da una parte quelli di serie A, parzialmente protetti e a pagamento, per le élite che hanno capito che utilizzare Gmail per gestire i propri affari è una pessima idea; da un’altra quelli di serie B per le grandi masse incolte – in stile Facebook per capirci – dove prospererà il marketing della profilazione.
Sabato il New York Times ha rivelato che l’NSA dispone di un sistema di riconoscimento facciale basato su milioni di immagini intercettate quotidianamente su Internet: c’è il sospetto che una delle fonti principali da cui essa attinge sia proprio Facebook. In che cosa consiste a vostro avviso il potere di sorveglianza dell’NSA? Nelle tecnologie a sua disposizione o nel comportamento incauto di miliardi di utenti che rilasciano i loro dati personali in rete?
Come dicevamo prima, il vero controllo è commerciale: per le agenzie di sicurezza è decisamente comodo potersi avvalere delle basi dati delle grandi internet companies. Certo, i dispositivi dell’NSA non sono secondari, così come non lo è l’atteggiamento incauto degli utenti: ma questi elementi non sono sufficienti a spiegare lo “stato di eccezione di massa” in cui versa Internet oggi.
Secondo noi il punto fondamentale è che le deleghe alla tecnocrazia su cui fanno leva le tecnologie commerciali sono forme di dipendenza. Delegare è rassicurante, è piacevole. I servizi 2.0 sono semplici, comodi, potenti. Ci fanno dimenticare quanto sia complicato e faticoso gestire la nostra vita. Il backup dei nostri dati non è più necessario: basta preoccupazioni, tutto sta nella Nuvola! Le società di IT si prendono cura di noi: affidiamo loro i nostri dati, i nostri numeri di telefono, le nostre fotografie, la nostra sicurezza in rete. Siamo rassicurati dal non essere più responsabili di nulla e cediamo la gestione del nostro alter ego digitale a imprese private che lo mettono a disposizione di governi, agenzie di spionaggio e marketing pubblicitario.
Nel vostro ultimo testo operate una disamina spietata della retorica che individua nella rete uno strumento di sviluppo della democrazia. Geert Lovink nel suo ultimo libro ha però sostenuto che «non basta più limitarsi a decostruire il circo dei media». Voi che suggerimenti offrireste ai movimenti che fanno della rete un campo di conflitto?
Non ci sono ricette magiche naturalmente, soprattutto non ci sono soluzioni globali, ma solo percorsi individuali, locali. Che possono diventare collettivi, essere tradotti, traditi e adattati a diverse realtà. Per esempio il rapporto con i social si può inquadrare in molti modi, tutti utili: applicando le regole del social media marketing alla comunicazione politica, con l’hacking, con l’esodo, con la costruzione di social “altri”. A noi piace l’idea di sostituire il concetto di social network con quello di trusted network: non abbiamo bisogno di socializzare di più, ma di costruire reti organizzate, e organizzate meglio. La cosa difficile è l’organizzazione, perché appunto, come dice la parola, è una questione “organica”, tipica degli organismi, e il processo di de-corporeizzazione e delega delle questioni vitali alle macchine è cominciato molto tempo fa. Occorre cominciare a fare formazione dai più piccoli – i cosiddetti nativi-digitali – che non hanno per nascita gli anticorpi all’informatica del dominio. Per iniziare, hanno bisogno di essere formati a non lasciare tracce sul web, non di compilare moduli per accedere all’oblio dalla burocrazia googoliana. Noi siamo disponibili. È un tempo perfetto per la critica radicale, l’azione diretta e la disseminazione degli elementi minimi di auto difesa digitale.