Apparentemente Google e Wikileaks hanno molto in comune. Sebbene di tipo non statuale, entrambe sono organizzazioni considerate alla stregua di superpotenze internazionali, per via della loro centralità all’interno dei circuiti d’informazione globale. Dall’alto delle rispettive plance di comando combattono la stessa battaglia – quella per il controllo delle menti –, che conducono attraverso network e piattaforme di comunicazione. Negli ultimi anni, oltre ad aver gettato scompiglio nel sonnecchiante mondo del giornalismo tradizionale, hanno ridefinito lo steccato di valori legittimi entro cui operano gli attori politici. Apertura e trasparenza – a dispetto del loro modello organizzativo imperniato su meccanismi opachi – sono i loro cavalli di battaglia, le loro parole d’ordine, assunte come proprie anche da gran parte dei movimenti sociali sorti in tutto il mondo a partire dal 2011.
A dividere Davide e Golia c’è però una radicale divergenza di vedute in merito alle future prospettive di governance della rete. Per Julian Assange infatti il potere liberatorio di Internet «è basato sulla sua autonomia e sull’assenza di controllo da parte degli stati» mentre per Eric Schmidt – ex CEO di Big G – esso coincide «con gli obbiettivi della politica estera statunitense e con la capacità di connettere paesi non occidentali a mercati e aziende occidentali». Due posizioni inconciliabili, la cui distanza viene saggiata in When Google met Wikileaks (edizioni Or Books), l’ultimo libro firmato dall’istrionico fondatore del sito di whistleblowing.
La diplomazia tech di Big G
Il volume racconta l’incontro tra la primula rossa degli hacker e l’imperatore di Mountain View, avvenuto il 23 giugno 2011 alla presenza di Jared Cohen, alfiere della “diplomazia digitale” promossa dal Dipartimento di Stato durante la prima amministrazione Obama. Un colloquio – di cui il testo riporta la trascrizione integrale – voluto da Schmidt e Cohen per raccogliere la testimonianza di Assange e includerla nel libro The New Digital Age, su cui al tempo i due stavano lavorando. Nelle sue 200 pagine (e in particolar modo nel lungo saggio introduttivo che lo apre) When Google met Wikileaks tratteggia però sopratutto il ruolo di Google nei processi di elaborazione del soft power a stelle e strisce, il suo eccezionalismo colonialista in salsa tecnologica, nonché il suo apporto allo sforzo produttivo del complesso militare-industriale di Washington.
Il logo di Google viene visualizzato dagli utenti di Internet circa 6 miliardi di volte al giorno e per questo motivo gode di un posizionamento strategico nel mercato simbolico delle idee. La sua onnipresenza e l’aura di valori positivi di cui è ammantato l’hanno reso lo sponsor ideale per numerose associazioni, ufficialmente votate alla creazione di soluzioni tecnologiche per lo sviluppo della “società civile”. Si tratta in realtà di un paravento, spiega Assange, utilizzato dal Dipartimento di Stato e dalla crema dell’élite finanziaria statunitense, per espandere il proprio spazio di mercato e la propria presenza politica in aree del mondo non ancora assoggettate al dominio dello zio Sam.
È il caso per esempio di Gen Next, fondazione che si propone di promuovere il “cambiamento sociale” (leggi “ampliamento della sfera d‘influenza americana”) mediante l’iniezione di capitali ad alto rischio in zone economicamente arretrate. Oppure quello di Advancing Human Rights, ONG che monitora le violazioni dei diritti umani (salvo quelle commesse da Stati Uniti e Israele) e che vanta nel suo consiglio direttivo la presenza di Richard Kemp, ex comandante in capo delle forze britanniche di stanza in Afghanistan. Poi c’è Movements.org, lega di giovani mediattivisti presenti in aree “problematiche” (come Cuba, Venezuela, Medio Oriente e Nord Africa), supportati dalla Casa Bianca e foraggiati, oltre che da Google, anche da multinazionali del petrolio (Shell) e del settore aerospaziale (Boeing).
A proposito di Schmidt
Cosa hanno in comune tutte queste associazioni? Un nome, quello di Jared Cohen, che in ognuna di esse ricopre incarichi di responsabilità. Poco più che trentenne, esperto di contro-terrorismo, Cohen vanta un palmarès professionale invidiabile: prima consulente di Condy Rice, poi braccio destro di Hillary Clinton, infine presidente di Google Ideas, think thank aziendale di Mountain View che raccoglie hacker, ingegneri, informatici, ma anche militari di professione e contractor del mercato degli armamenti. Posto al centro di un fitto network di relazioni che riunisce gli alti papaveri di Washington e il gota dell’industria di Internet, Cohen ha svolto anche incarchi di “diplomazia coperta” in Medio Oriente e Europa. Tempi duri per gli 007 della CIA: oggi la politica per procura è affidata agli emissari di Google.
Ma, a detta di Assange, è nella figura di Eric Schmidt che l’ibridazione tra «le tendenze centriste, liberali e imperialiste della vita politica americana» trova il suo stadio di sviluppo più elevato. Figura chiave nella trasformazione di Google da piccola startup californiana a mega tech company globale e assiduo finanziatore di entrambi i rami del Campidoglio, Schmidt è il vero punto di raccordo tra l’ideologia turbocapitalista della Silicon Valley e quella militarista del Pentagono.
Non è certo un caso infatti che, con la sua ascesa nel 2001 al ruolo di amministratore delegato dell’azienda, le collaborazioni con esercito e NSA si siano progressivamente intensificate, fino a consolidarsi in una partnership privilegiata che garantisce laute commesse a Big G. Il Datagate ha svelato una volta per tutte ciò che molti sospettavano da tempo, ovvero che il re dei motori di ricerca per anni ha contribuito attivamente alla realizzazione dei programmi di sorveglianza globale messi a punto a Fort Meade. Ma Assange va più in profondità, ricordando come la preminenza di Google nel settore di raccolta e stoccaggio dati – resa possibile dal dominio di Android nel mercato degli smartphone – rappresenti un asset strategico anche nell’ambito della ricerca civile e militare applicata alla robotica e all’intelligenza artificiale. La creazione di droni di nuova generazione è infatti un interesse condiviso tra gli alti comandi militari statunitensi e i vertici di Google: i primi, interessati a perfezionare macchine da guerra sempre più letali, i secondi desiderosi di sviluppare gli adeguati vettori aerospaziali per portare Internet nel sud del mondo e allargare così a dismisura la propria base di utenti. Non dovrebbe stupire allora che Pechino spinga da anni per adottare su scala nazionale dei sistemi operativi “autarchici”: a muoverla in questa direzione non sembra essere solo la smania del controllo, ma anche la volontà di non contribuire allo sforzo bellico di uno dei suoi principali avversari.
La simbiosi imperiale
When Google met Wikileaks racconta in modo puntale il rapporto simbiotico instauratosi nell’ultimo decennio tra il governo degli Stati Uniti e quello che un tempo veniva considerato “il gigante buono” di Internet. Un nesso da cui Washington e la Silicon Valley traggono benefici mutuali, se è vero che la prima tende a esercitare la sua influenza mondiale attraverso le corporation, mentre la seconda, quando necessario, affida la difesa del suo regime di accumulazione alle capacità coercitive dello stato.
D’altra parte la “mano invisibile del mercato”, scriveva Tom Friedman nel 1999, sarebbe assai meno efficiente senza il “pugno invisibile del governo”, pronto a colpire per difenderla. Oggi quel pugno è rivestito dal guanto cibernetico ricamato nei laboratori della Silicon Valley. Schmidt e Cohen hanno capito che il dominio di Google in rete è ancorato alla capacità degli Stati Uniti di preservare la loro egemonia strategica ed economica. Egemonia senza la quale sarebbe ben difficile per Mountain View affermare i suoi standard tecnici, trasformarli in regolamenti vincolanti per miliardi di persone e influenzarne così i comportamenti e le scelte di vita.
Per dirla con Assange insomma, «a “don’t be evil” empire is always an empire».