Kim Dotcom si candida al parlamento della Nuova Zelanda

kim-dotcom-threw-another-epic-pool-party-this-weekend-photosIl 20 settembre la Nuova Zelanda torna alle urne per eleggere i rappresentanti della camera dei comuni. Sebbene i sondaggi diano vincente John Key, primo ministro al suo secondo mandato e leader del partito Nazionale, non si può certo dire che il premier uscente abbia affrontato una campagna elettorale facile. Motivo? La presenza nelle liste di un nuovo partito, il Mana Internet Party guidato e finanziato da Kim Schmitz.

Ex hacker, imprenditore di origine tedesca e conosciuto al pubblico con lo pseudonimo di DotCom, Schmitz finisce per la prima volta sotto la luce dei riflettori nel 2012 in seguito a un clamoroso raid dell’FBI contro Megavideo.com, popolare sito di filesharing da lui fondato. Dopo solo un anno e con il procedimento penale a suo carico ancora in corso, torna a far clamore grazie al lancio di Mega, nuova piattaforma di condivisione files orientata alla tutela della privacy degli utenti. Infine nel 2014 sceglie di “scendere in campo” con una formazione politica il cui programma prevede l’abbattimento dei costi per l’accesso alla rete, una legislazione più morbida in fatto di proprietà intellettuale, maggiori investimenti nell’economia digitale e l’introduzione di un set di norme volte a tutelare la riservatezza del cittadino a fronte della sorveglianza di massa dilagante.

Ed è proprio su quest’ultimo punto che il dibattito elettorale in Nuova Zelanda si è fatto infuocatissimo nei giorni passati. Colpa, o merito, di Glenn Greenwald, il celebre giornalista statunitense autore degli scoop sul Datagate. Sbarcato sabato scorso a Wellington, Greenwald ha cominciato a sparare bordate di grosso calibro davanti a fotografi e reporter non appena sceso all’aereo. Nel mirino il premier John Key, accusato di aver avallato tra il 2012 e il 2013 l’approvazione di un programma di controllo governativo (nome in codice Speargun) ideato per intercettare in modo sistematico le comunicazioni internet dei cittadini neozelandesi. Fonte della rivelazione sono ancora una volta i leak di Edward Snowden, trafugati dai database dell’NSA prima della sua rocambolesca fuga verso la Russia.

Travolto dalle polemiche, Key ha negato seccamente ogni addebito («Non c’è e non c’è mai stato un programma di sorveglianza digitale attivo in Nuova Zelanda») e ha desecretato in fretta e furia alcuni documenti che confermerebbero la veridicità della smentita. Stando alle sue dichiarazioni, Speargun sarebbe in realtà un sistema di difesa elettronica – mai portato a termine – elaborato per proteggere le compagnie locali dalle intrusioni di hacker e governi stranieri. Pronta la replica di Greenwald che lunedì ha pubblicato sul portale The Intercept i documenti in suo possesso, dai quali emergerebbe invece come la prima fase del progetto si ormai ultimata.

Ma l’ultimo colpo di teatro della campagna è arrivato la sera stessa nella Town Hall di Auckland. Sul palco di Moment of Truth, evento elettorale organizzato da Dotcom, si sono infatti alternati, oltre allo stesso Grennwald, anche Julian Assange ed Edward Snowden, collegati in videoconferenza. Una parata di icone mediatiche, considerate a torto o a ragione come paladini della libera informazione, che hanno espresso tutto il loro sostegno all’Internet Mana Party.

Difficile dire se con queste mosse il neonato partito riuscirà a sfondarela soglia del 5% necessaria per raggiungere il quorum. Di certo però la visibilità ottenuta negli ultimi giorni dall’imprenditore tedesco non potrà che giovare alle sue attività commerciali e alla sua complicata situazione legale (su Dotcom pende infatti la minaccia di estradizione negli Stati Uniti su cui le autorità locali si pronunceranno nel 2015).

Comunque vada a finire, la tornata elettorale di sabato e’ una cartina al tornasole importante per saggiare in che misura tematiche come la sorveglianza digitale o la proprietà intellettuale siano riuscite a far breccia nel cuore dell’opinione pubblica dopo il Datagate. Un banco di prova delicato dunque, anche per testare le capacità di mobilitazione di quel nuovo populismo digitale – di cui Dotcom è uno dei massimi esponentiche si candida a prendere il posto delle forze politiche tradizionali, incapaci di emozionare l’elettorato e travolte da un emorragia di consensiche ad oggi pare inarginabile.