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«Faccio app per il movimento»

riot_app1999. Esplode il movimento di Seattle. Migliaia di attivisti si muovono veloci tra le barricate in fiamme nelle strade di Praga, Nizza e Genova, e maturano presto una consapevolezza: perché un altro mondo sia davvero possibile, è indispensabile per i movimenti sociali farsi media. Dal basso prende il via una straordinaria stagione di sperimentazione tecnologica: nasce Indymedia, prototipo ante litteram del web 2.0; si diffondono servizi e-mail orientati alla tutela della privacy – Riseup negli Stati Uniti, Autistici/Inventati in Italia – frutto dell’intuizione di chi già intravede nelle maglie della rete una soffocante stretta securitaria; e, molto prima che YouTube sia anche solo un’idea, vede la luce New Global Vision, una piattaforma di video sharing concepita per attivisti.

2010. L’immolazione di Mohamed Bouazizi in Tunisia è la scintilla che incendia una prateria resa arida da anni di umiliazioni e vessazioni. Dalle coste del Mediterraneo a quelle del Nord America, il fuoco si propaga rapido in un nuovo ecosistema tecnico fatto di connessioni mobili e comunicazioni istantanee. Il 99% si muove tra strada e rete – compenetratesi ormai in un rapporto simbiotico – mentre gli smartphone diventano strumenti di lotta fondamentali, tanto da costituire un nuovo terreno di sperimentazione collettiva. Ma i movimenti contro l’austerity non si accontentano di utilizzare in modo tattico le app delle grandi internet companies californiane: al contrario ne producono di proprie. Lo spirito Do It Yourself continua. Continua a leggere

Turchia: la geometria variabile del network

Turkey-twitterj«Pensi davvero che il blackout imposto a Twitter da Tayyip ci abbia messo fuori gioco?» K. quasi si fa scherno di me quando gli domando quali siano state le conseguenze del blocco di Twitter e YouTube voluto da Erdoğan nei giorni che hanno preceduto le elezioni amministrative del 30 marzo in Turchia. Una mossa che secondo molti aveva l’obiettivo di impedire la diffusione di alcune intercettazioni circolate sui social media, che mettevano in luce il diretto coinvolgimento del primo ministro in diversi episodi di corruzione governativa. «Stronzate» è il suo commento lapidario «chiunque in Turchia era a conoscenza di quei leak al momento del blocco».

K. ha poco più di trent’anni e dopo aver girovagato a lungo per l’Europa è tornato ad Istanbul quando Gezi Park è esplosa lo scorso giugno. Scambio alcune battute con lui davanti alla webcam e mi rendo subito conto di non avere a che fare con un hacker né con un techie (cioè una persona particolarmente incline all’uso delle tecnologie digitali). Eppure, spiega K., per lui utilizzare un proxy o altri sistemi per aggirare la censura in rete «è come mettere i calzini quando mi sveglio la mattina. Ogni settimana un nuovo sito viene reso inaccessibile. E ogni settimana cambio la configurazione del mio computer, navigo senza troppi problemi e mi faccio una bella risata alla faccia dell’AKP (il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo che guida la Turchia da 12 anni, nda)». Continua a leggere