Apparentemente Google e Wikileaks hanno molto in comune. Sebbene di tipo non statuale, entrambe sono organizzazioni considerate alla stregua di superpotenze internazionali, per via della loro centralità all’interno dei circuiti d’informazione globale. Dall’alto delle rispettive plance di comando combattono la stessa battaglia – quella per il controllo delle menti –, che conducono attraverso network e piattaforme di comunicazione. Negli ultimi anni, oltre ad aver gettato scompiglio nel sonnecchiante mondo del giornalismo tradizionale, hanno ridefinito lo steccato di valori legittimi entro cui operano gli attori politici. Apertura e trasparenza – a dispetto del loro modello organizzativo imperniato su meccanismi opachi – sono i loro cavalli di battaglia, le loro parole d’ordine, assunte come proprie anche da gran parte dei movimenti sociali sorti in tutto il mondo a partire dal 2011.
A dividere Davide e Golia c’è però una radicale divergenza di vedute in merito alle future prospettive di governance della rete. Per Julian Assange infatti il potere liberatorio di Internet «è basato sulla sua autonomia e sull’assenza di controllo da parte degli stati» mentre per Eric Schmidt – ex CEO di Big G – esso coincide «con gli obbiettivi della politica estera statunitense e con la capacità di connettere paesi non occidentali a mercati e aziende occidentali». Due posizioni inconciliabili, la cui distanza viene saggiata in When Google met Wikileaks (edizioni Or Books), l’ultimo libro firmato dall’istrionico fondatore del sito di whistleblowing. Continua a leggere