Che cosa succede a Internet se la logica paritaria ed orizzontale che ne aveva contraddistinto lo spirito originario viene meno? Quali sono le forme di vita che germogliano in spazi digitali privati, organizzati esclusivamente secondo una razionalità neoliberista? Quali le mutazioni che investono la nostra struttura cognitiva se il cervello va in overloading, travolto da una quantità d’informazione che non è in grado di processare?
Sono queste le domande al centro della riflessione sviluppata da Giuliano Santoro in Cervelli Sconnessi. La resistibile ascesa del net-liberismo e il dilagare della stupidità digitale (Castelvecchi RX, 141 pp., 16,50 €), un testo dal taglio divulgativo in cui l’autore ripercorre a volo d’uccello la parabola che ha segnato l’epopea della rete, da Arpanet fino al Web 2.0. Salutata nella sua fase aurorale da entusiastiche grida che ne esaltavano il supposto potere liberatorio, celebrata come medium universale che recava in nuce la promessa di un nuovo umanesimo, raccontata come territorio ingovernabile e sfuggente alla morsa «degli stanchi giganti di carne e di acciaio» (J.P. Barlow), Internet, afferma l’autore, oggi ha ormai mutato il suo corso: non più uno strumento dalle potenzialità rivoluzionarie ma, al contrario, un dispositivo di dominio che ha finito per «rafforzare le relazioni di potere invece che allentarle».
Sia chiaro: il giornalista non ritiene che tale trasformazione fosse necessariamente inscritta nel DNA del cyberspazio, né il suo ultimo lavoro è l’ennesima puntata dello stanco dibattito che da anni contrappone «apocalittici e integrati»:profeti di sventura della distopia orwelliana gli uni, ingenui apologeti della democrazia elettronica gli altri. Si tratta, prendiamo l’espressione in prestito da Wu Ming 1, di «due retoriche, allo stesso tempo uguali e contrarie» – entrambe, aggiungiamo noi, situate sul medesimo continuum teorico neopositivista – «che stringono in una poderosa manovra a tenaglia la possibilità di mantenere un punto di vista critico» sul ruolo odierno dei media digitali.
Il punto sostenuto da Santoro è un altro. Quando l’idiota tecnologico si produce con sicumera nella sua asserzione preferita («Internet è solo uno strumento, puoi usarlo bene o male»), sottovaluta incautamente «il mondo circostante, le sue contraddizioni e i suoi conflitti». Ogni network infatti viene configurato per conseguire degli obiettivi e il software che ne regola il funzionamento incorpora in sé valori e interessi stabiliti dagli architetti della rete. Affinché i suoi esiti possano essere modificati è necessario che un nuovo programma venga installato dall’esterno. Ebbene, a partire dal 1995 – momento in cui prende il via un vasto processo di privatizzazione di Internet, innescatosi sull’onda lunga della contro-rivoluzione liberista degli anni ’80 – il virus dell’«ideologia del profitto» è stato iniettato nei circuiti del web e il suo controllo è passato dalle mani sapienti degli ingegneri che ne avevano posto le fondamenta, agli artigli rapaci di governi e corporations. I connotati di Internet sono stravolti: i finanziamenti pubblici che ne avevano garantito lo sviluppo svaniscono e sono sostituiti da profitti ottenuti mediante il saccheggio sistematico delle informazioni degli utenti; i suoi standard comunicativi sono imposti da imprese private cui sta a cuore la tutela del bilancio patrimoniale, più che la libertà d’informazione dei netizen; la sua architettura si addensa intorno a pochi supernodi che elaborano quantità di dati sempre maggiori e acquisiscono così un potere irresistibile. Per dirla con Geert Lovink: «agli inizi era Internet che stava cambiando il mondo. Oggi è il mondo che sta cambiando Internet».
I risultati di questa trasformazione sono scritti nero su bianco e Santoro, chiamando in causa e facendo dialogare tra loro alcune delle voci più autorevoli nel panorama internazionale del net-critcism, li mette in fila uno ad uno, facendo piazza pulita di credenze, miti e luoghi comuni su cui sono imperniati i regimi discorsivi che hanno legittimato l’ascesa del net-liberismo negli ultimi 20 anni.
A finire nel mirino dell’autore è ad esempio la barzelletta secondo cui le interfacce tecno-sociali che regolano l’interazione degli individui in rete correggerebbero le distorsioni del mercato, anche in virtù dell’abolizione dei vincoli di scarsità che caratterizzano lo scambio di merci materiali. Balle, afferma giustamente Santoro, perché il settore dell’ICT (Information Communication Technology) è di fatto un oligopolio dominato da un pugno di player che ne detiene gli asset fondamentali. E questo senza dimenticare che l’economia digitale continua a poggiare essenzialmente su una scarsità artificiale imposta dall’alto: l’irreggimentazione draconiana del sistema globale di proprietà intellettuale è lì a testimoniarlo.
Certo, lo scontro tra i potentati del capitalismo digitale non si riduce al feroce contenzioso ingaggiato per ottenere il controllo di marchi, brevetti e copyright. Sono le nostre stesse vite, messe in mostra in recinti digitali e trasformate «in dati da spremere e oggetti da controllare», a rappresentare il boccone più ghiotto per i signori della Silicon Valley. Motivo per cui Mark Zuckerberg, elevata la trasparenza ad imperativo morale, ci invita ad esporci senza remore allo sguardo ubiquo dell’occhio elettronico: trasformare in bit – cioè in numeri – ogni singolo gesto della nostra giornata, significa renderlo quantificabile, controllabile e quindi monetizzabile.
Quali sono le conseguenze di questa nostra esibizione 24h/7? Le relazioni personali vengono snaturate dalla ricerca di visibilità e consenso a tutti i costi; la santa trinità dell’autoritarismo – censura, propaganda e sorveglianza – trae da Internet rinnovata linfa vitale; il real time assurge a nuovo paradigma giornalistico, la politica scade nella personalizzazione, la democrazia (qualsiasi significato rivesta oggi questo termine) si riduce a sondaggio, l’opinione pubblica diventa un surrogato dell’audience e il livello del dibattito si abbassa terribilmente. Il paradossale risultato finale è che l’accesso permanente alla rete non tonifica affatto l’intelligenza collettiva ma favorisce piuttosto il dilagare della stupidità digitale. E di rivoluzione, neanche a parlarne: i cervelli sconnessi, incollati ai display dello smartphone e isolati dalla realtà circostante, possono tutt’al più permettersi di partecipare ad una «guerra civile simulata», combattuta unicamente a colpi di tweet e selfie, per favorire l’ascesa al potere del leader carismatico di turno.
Cervelli Sconnessi è un’agile cartografia di questi (e molti altri) temi e costituisce una bussola ideale per i beginners che vogliano addentrarvisi. Di contro, il difetto principale del libro è proprio l’ampio ventaglio di argomenti affrontati: veramente molta la carne messa al fuoco in 140 pagine, forse pure troppa, tanto da far risultare l’esposizione eccessivamente affastellata in alcuni passaggi. Cionondimeno è apprezzabile la scelta di Santoro di evidenziare come i media digitali, se approcciati con spirito critico e consapevolezza, continuino ad essere forieri di ambivalenze oltre che di ambiguità: è il caso del movimento #15M che, distribuendo l’«emozione connettiva» in rete, ha saputo rompere l’egemonia del circuito informativo generalista e mobilitare ampi settori della società spagnola. Certo, come tutti i movimenti emersi negli ultimi tre anni neanche quello iberico rappresenta una risposta definitiva al net-liberismo, né è a sua volta esente da limiti e contraddizioni (primo tra tutti, un certo tecno-entusiasmo di fondo). Per superarli e risolverli c’è un’unica strada da intraprendere. E, come sempre accade per i movimenti, questa passa per un tortuoso percorso fatto di riflessioni e sperimentazioni collettive.